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Brevi note sulla pittura in Acireale

(Matteo Donato)

Questo breve profilo storico della pittura in Acireale è rivolto a facilitare l'accostamento di un pubblico quanto più vasto possibile alle opere della Pinacoteca Zelantea e in pari tempo a fornire i dati indispensabili per una prima conoscenza dell'arte figurativa acese. I nomi degli artisti. le cui opere si trovano nella nostra Pinacoteca,sono contrassegnati con un asterisco.

 

Nulla o quasi sappiamo della situazione pittorica in Acireale anteriormente alla seconda metà del Seicento. Ciò si verifica sia perché la città era in quel tempo un piccolo, anche se importante,centro agricolo, in cui l'interesse per la pittura era limitato a poche famiglie e a qualche ecclesiastico, sia perché l'insipienza degli uomi­ni ha cancellato i pochi avanzi pittorici risparmiati dai frequenti terremoti che hanno sconvolto la zona. Del primo dipinto di cui si ha notizia, una «icona lignea», realiz­zata nel 1573 dal maestro di Modica, Bernardino de Nigro, alias lo Greco, per la Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, si sconosce il soggetto e forse andò perduto allorché la Chiesa stessa venne demolita per consentire agli inizi del '600 l'ampliamento della Matrice (oggi Cattedrale). Una delle pochissime testimonianze cinquecentesche perve­nuteci è la «Madonna con Bambino, affrescata nella Chiesa di Santa Maria dei Miracoli, nel cimitero di Acireale, e di recente restaurata dopo secolare abbandono.

Il primo artista di cui si abbia una discreta documentazione storica ed un nume­ro rilevante di opere è Giacinto Platania* (Acireale 1612c.-1691). Più o meno diretta­mente, da lui discende la numerosa schiera di pittori che operarono durante tutto l'arco del Settecento.

Artista di buona preparazione - alla pittura lo aveva iniziato il padre Antonio di cui è documentato che nel 1630 realizzò l'«Angelo Custode» per la Cattedrale di Acireale -, egli amò sempre introdurre nei suoi quadri notazioni realistiche che costituiscono da sole dei brani pittorici di grande efficacia; ebbe altresì un gusto del paesaggio in misura tanto notevole quale pochi altri artisti acesi hanno avuto. Accade, perciò, che nelle grandi pale d'altare il fastidio generato talvolta da certe pose manierate dei suoi santi viene dimenticato di fronte ai brani di paesaggio etneo, acese o marino, che appaiono sullo sfondo.

Il grande amore che egli ebbe per la sua terra è testimoniato anche dall'azione efficace che svolse nel 1669, per deviare la lava che minacciava alcuni paesini etnei. Di tale avvenimento il Platania ha lasciato visibile ricordo nella sacrestia del Duomo di Catania in un affresco che purtroppo è danneggiato e mal ritoccato.

A detta del Vigo, non vi è Chiesa dei dintorni di Acireale che non abbia una sua tela. Tra le più significative, in Acireale, annoveriamo «Il transito di S. Giuseppe» nella omonima Chiesa, il «S. Simone Stock» al Carmine, il «S. Antonio Abate» nella riedificata Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, il «S. Antonio da Padova» ed il «Ritratto di Mons. Branciforte» nella Cattedrale, la «Madonna in trono» ai Cappuccini (firm. e dat.: «Hyacintus Patania pingebat 1661»), il «S. Biagio e S. Martino papa» nella Chiesa di S. Biagio, la «S. Venera e S. Agata» nella Chiesa dell'Indirizzo, il «S. Cirino e S. Crispino» in S. Maria degli Agonizzanti, ed infine, nella Chiesa Madre di Acica­stello, il «S. Mauro» (dat. e firm.: «Hyacintus Platania pin. 1681»). Un'«Ultima Ce­na», un tempo nel refettorio dei Cappuccini, è oggi patrimonio della Zelantea.

Contemporaneamente al Platania operò in Acireale Antonino Finocchiaro*, del­la cui attività di artista conosciamo assai poco, ma che dovette godere di un certo prestigio se gli vennero affidate dai Giurati acesi opere quali «Acireale festeggia il passaggio del viceré Martino de Redin» (1657), la pianta di tutte le acque del territo­rio, il busto di «S. Venera».

L'ambiente artistico acese nel periodo del suo primo formarsi ed affermarsi ri­sentì notevolmente dell'influenza di quello messinese. Negli anni 1674-79 operò in Acireale Giovanni Fulco (Messina, 1615 Roma 1680), il quale affrescò il coro della Chiesa dei SS. Pietro e Paolo (tali affreschi, in seguito imbiancati, hanno rivisto la luce nel 1922, durante alcuni lavori di restauro). Nel 1712 Antonio Filocamo* (Messina 1669-1743) portò a termine assieme ai fratelli le decorazioni ad affresco del Coro («Assunzione della Vergine») e della Cappella di S. Venera («Predica e Martirio di S. Venera») nella Cattedrale, ove già si trovava una «Madonna del Rosa­rio» di Antonio Catalano, il Vecchio* (Messina 1560-1630).  

Messinesi sono, infine, lo scultore Placido Blandamonte, autore dell'elegante portale marmoreo della Cattedrale con quattro statue di stile barocco (1668); l'orafo Mario D'Angelo, cui venne commissionato, tra l'altro, il rivestimento in argento e bronzo dorato del busto di S. Venera (1655) modellato da Antonino Finocchiaro; lo scultore ed orafo Girolamo Carnazza, cui si devono numerose statue lignee (mette conto cita­re quelle di «S. Paolo» per la Chiesa dei SS. Pietro e Paolo (1658) e dell'«lmmacola­ta» nella Chiesa di S. Biagio) e che fu insieme al D'Angelo l'artefice del fercolo di S. Venera (1660) (l'opera sarà portata a termine circa un secolo dopo da un altro messinese, Vito Blandano); messinese è, per finire, l'architetto ed intagliatore Anto­nio Amato cui si debbono le sculture del prospetto di pietra bianca della Chiesa di S. Sebastiano (1714-15). In tale prospetto fregi, mensole, statue, puttini con festo­ni sono un inno gioioso alla vita quale soltanto l'estro inventivo barocco d'ispirazio­ne popolare poteva immaginare.

Quando il Platania morì, tre altri pittori, nati tutti nella seconda metà del Sei­cento, si erano già formati alla sua scuola: Baldassare Grasso, Giovanni Lo Coco, Matteo Ragonisi.

Su Baldassare Grasso (Acireale 1664-1714) non ci è possibile formulare alcun giudizio. Infatti, nessuna tela gli si può attribuire con assoluta certezza e malaugura­tamente sono andati perduti sia gli affreschi eseguiti nel 1689 nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, sia quelli del coro della Chiesa di S. Sebastiano, sia infine quelli della cappella del Crocifisso nella Cattedrale. Rimane soltanto il «S. Pietro di Alcan­tara in estasi» nella Chiesa di S. Biagio: troppo poco (ammesso anche che l'opera sia sua) per poter dar luogo ad un discorso critico sulla personalità artistica del Gras­so. Di lui soltanto si può dire - a giudicare dai lavori commessigli - che godeva certamente di grande credito presso i suoi concittadini.

Giovanni Lo Coco*, detto il Sordo di Aci (1667-1721), formatosi in patria, passò successivamente a Roma. dove visse alcuni anni. Al ritorno affrescò il Duomo di Pedara, la Chiesa di S. Agata al Borgo di Catania ed in Acireale il chiostro del Convento di S. Biagio con storie della vita di S. Francesco. In uno di questi ultimi affreschi l'artista ci ha lasciato il suo autoritratto con l'iscrizione: «Giovanni Lo Co­co acitano pingeva 1715». Nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo sono stati rinvenuti nel 1910 alcuni suoi affreschi che erano stati imbiancati. Suoi, infine, potrebbero essere gli affreschi del chiostro di S. Francesco ad Acicatena.

Tra le tele, ricordiamo una «Sacra Famiglia» ed una «Madonna della Lettera». entrambe nella chiesa di S. Sebastiano. Nuoce alle opere del Lo Coco un certo manierismo dolciastro, presente sia nella narrazione che nella cromia.

Matteo Ragonisi* (Acireale 1660-1734), dopo un periodo di studio a Roma (ri­mase particolarmente influenzato dalla pittura del Maratta), al ritorno in patria ini­ziava un 'alacre attività pittorica, lasciandoci numerosissime opere dallo stile incon­fondibile, quali la «Strage degli Innocenti» nella Chiesa del Suffragio, 1'«Incorona­zione della Vergine» in S. Sebastiano, i «SS. Pietro e Paolo» nella omonima Chiesa, lo «Sposalizio di S. Rita» in S. Domenico, per citarne soltanto alcune tra le più rappresentative. Vanno menzionati pure gli affreschi della Chiesa di Loreto, imbian­cati e successivamente riscoperti nel 1895.

Le tele del Ragonisi presentano ora una composizione complessa con una miria­de di personaggi che non lasciano respiro al dipinto, ora un impianto più semplice, con poche figure che s'impongono per statuaria grandezza. In tutte è una cromia ricca di contrasti e sempre tesa a valorizzare l'elemento lineare.

Per tali caratteristiche di stile il Ragonisi non ha riscosso finora degli apprezza­menti positivi dai suoi critici (Leonardi, Vigo, Raciti); noi, tuttavia, propendiamo per una rivalutazione dell'artista, la cui interessante personalità ci sembra meriti un'at­tenzione maggiore di quella che ha sin qui avuta.

Quando il Grasso, il Lo Coco ed il Ragonisi si erano imposti all'attenzione del pubblico, che plaudiva alla loro opera ossequiosa dei canoni della poetica barocca, il tremendo terremoto del gennaio 1693 segnava una battuta d'arresto allo sviluppo della città che aveva subito gravissimi danni. In parte o in toto tutte le chiese acesi erano danneggiate, ma la ricostruzione fu sollecita. Quello spirito di ripresa, quel fervore operoso saranno espressi dall'opera di Pietro Paolo Vasta* (Acireale 1697-1760), ritenuto dai contemporanei e dai posteri la maggior gloria pittorica cittadina con un giudizio che si materiava sia della grandezza dell'artista sia dell'orgoglio degli Acesi per il rifiorire della loro città. Il Vasta, infatti, deve essere sentito come simbo­lo e testimonianza del felice coronamento della ripresa di tutta una popolazione.

Una ricca documentazione consente di seguire lo svolgimento della personalità dell'artista, che ebbe la sua prima educazione in Acireale, a contatto delle opere di Giacinto Platania e di Antonio Filocamo.

Recatosi successivamente a Roma (come allora era consuetudine per quanti vo­lessero eccellere), il Vasta frequentò forse la scuola del pistoiese Luigi Garzi ma so­prattutto fu sensibile agli insegnamenti di vari maestri acquisendo un linguaggio assai composito. Dopo aver trascorso a Roma circa una diecina d'anni, effettuando spora­dici viaggi nell' Italia settentrionale, Vasta soggiornò per breve tempo a Napoli, dove probabilmente fu discepolo del Solimena.

Quando nel 1730 ritornò in Acireale, recava con sé tele e disegni originali di numerosi maestri del suo tempo, nonché copie di loro opere da lui stesso eseguite da utilizzare successivamente per repliche e varianti.

La prima opera datata e firmata che di lui oggi si conosce è l'affresco dell'«Ap­parizione del Cristo a S. Sebastiano nella casa di Nicostrato» («Petrus Paulus Vasta Pin. An. MDCCXXXII») nel transetto sinistro della chiesa di S. Sebastiano. Con tale opera vinceva la gara con un altro pittore acese, pure proveniente da Roma, Venerando Costanzo, detto Varvazza, e gli veniva affidata l'esecuzione degli affre­schi per il coro della stessa Chiesa. Negli anni 1733-34 affrescò la «Gloria di S. Sebastiano» (volta), «S. Sebastiano genuflesso ai piedi di Papa Cajo» (conca abisida­le), «S. Sebastiano subisce il martirio delle frecce»,«S. Sebastiano soccorso dalle pie donne», «S. Sebastiano incontra Diocleziano», «Morte di S. Sebastiano» (sugli stalli). In tali affreschi il clima drammatico appare «diluito in una grazia settecente­sca » ed è pienamente ravvisabile la cultura romana tardo barocca del pittore.

L'accanito antagonismo, tra il Vasta ed il Costanzo si ripeteva poi a proposito degli affreschi da eseguire nel transetto della Cattedrale e per la seconda volta il Vasta, mercé l'autorevole intervento del pittore Guglielmo Borremans, riuscì a toglie­re l'incarico al suo rivale. Malgrado l'appoggio del clero, nulla poté, infatti, lo sfor­tunato Costanzo, i cui affreschi che aveva cominciato ad eseguire con la protezione del clero furono imbiancati. Migliore sorte ha avuto, invece, l'affresco della Chiesa di S. Sebastiano, dipinto in occasione della precedente gara con il Vasta e raffiguran­te «La conversione di Cromazio» (transetto destro). Sempre nella Chiesa di S. Seba­stiano negli anni '60 del nostro secolo a seguito di lavori nella navata centrale sono comparsi e successivamente restaurati 15 affreschi del Costanzo, dipinti non sappia­mo in quale momento della sua attività in Acireale. Tali affreschi, che rappresentano scene della vita di S. Sebastiano, già assegnati al Costanzo da Paolo Leonardi Penni­si, confermano la modestia della sua personalità di artista barocco.

Tornando al Vasta, dal '34 al '36, per meglio seguire la causa contro Costanzo, si era trasferito a Palermo dove aveva aperto anche uno studio. Testimonianza della sua attività palermitana di cui sappiamo poco, sono alcuni affreschi nella Chiesa di S. Anna alla Misericordia. In questo periodo il giovane Vito D'Anna iniziava col maestro acese quel lungo rapporto di lavoro che sarebbe durato fino al 1744.

Gli affreschi del Vasta nella Cattedrale acese («Glorificazione dell'Agnello Misti­co», «Nozze di Cana» (1737), «Gloria di S. Venera», l'«Uccisione di Abele», il «Sa­crificio di Isacco» nel transetto «Quattro Evangelisti» nelle vele della cupola) sono realizzati negli anni 1736-'39. Nel '38, intanto, il maestro ritorna nella Chiesa di S. Sebastiano per affrescarvi il «Ciclo cristologico» della cappella del Sacramento.

Il ritmo di lavoro diventa ben presto frenetico, eseguendo opere a Troina (1738), a Caltagirone (1745) e a Catania. Negli stessi anni nella sua Acireale realizza un nuovo ciclo di affreschi per la piccola Chiesa di S. Camillo dei Crociferi («Fatti della vita della Vergine», «Storie con eroine bibliche», «Virtù ed allegorie fem­minili»); ritorna per la terza volta ad affrescare nella Chiesa di S. Sebastiano («Fatti biblici» nei vani sottostanti la cupola e «Quattro profeti» nelle vele, 1745): dipinge un numero considerevole di pale d'altare, tra le quali la «Madonna delle Grazie» per S. Camillo, una «Pietà» e la «Trinità e Santi» (1742) in S. Sebastiano, il «S. Andrea Avellino» in SS. Pietro e Paolo (per questa chiesa aveva disegnato nel 1741 il primo e secondo ordine del prospetto ed ancora realizzava 5 stendardi processionali ad olio, oggi alla Zelantea), l'«Annunziata», la «Natività» ed il «S. Nicolò di Bari» nella Cattedrale, la «Maddalena» nella Chiesa omonima, l'«Addolorata» in S. Maria Odigitria e la «Madonna Bambina» in S. Maria degli Angeli (Cappuccini).

 Intorno al 1750 nella Chiesa di S. Maria del Suffragio porta a termine quello che si può considerare il più organico suo ciclo pittorico, affrescando completamente volta navata ed abside. Il ciclo suddetto, purtroppo, presenta brani tuttaltro che ori­ginali, come quello del «Trionfo della Mensa Eucaristica» della volta, eseguito su una replica fatta da Olivio Sozzi di un modello di Corrado Giaquinto*. La disinvolta esibizione di tali repliche costituisce peraltro una nota caratteristica della pittura sici­liana del '700. Sempre per la Chiesa del Suffragio va ricordata la tela dell'altare maggiore con la omonima Madonna firmata e datata «1751 ».

 Gli screzi con il suo miglior allievo, Vito D'Anna, che - tra altro - non aveva voluto sposare la figlia del maestro, Giustina, non rallentarono l'attività del Vasta. Aiutato da una numerosa schiera di discepoli, e soprattutto dal figlio Alessandro, egli popola delle sue tele e dei suoi affreschi le principali chiese di Acireale, Aci Catena («S. Lucia», firm. e dat.: «Vasta 1751»), Aci S. Antonio (affreschi con la «Gloria del Santo», 1753), Giarre. Riposto, Milo, Nel 1754 appresta i disegni delle statue del vestibolo della Chiesa di S. Sebastiano (le 10 statue saranno realizzate nel 1757 dallo scultore palermitano Giovan Battista Marini).

A fermarlo è la paralisi che nel 1755 lo colpisce mentre affresca il coro della Chiesa di S. Antonio di Padova ad Acireale. Cinque anni dopo è la morte. Il suo insegnamento, però, si perpetuerà a lungo in quella che, a buon diritto, oggi viene chiamata «Scuola vastesca».

 Tutta l'attività di Pietro Paolo va letta alla luce degli anni trascorsi in Roma. L'esperienza romana, infatti, ebbe per lui una importanza determinante. Il Maratta*, il Domenichino*, il Reni*, il Lanfranco, il Conca furono i suoi idoleggiati modelli. Certamente il Vasta ebbe delle qualità di rilievo: una notevole valentia nella composi­zione di scene complesse, un disegnare attento e vigilato ed un colorire non privo di passaggi cromatici efficaci. Tuttavia egli non ebbe la volontà, né - forse - l'ener­gia di staccarsi con decisione dai suoi modelli, di creare con maggiore originalità, anche se con minore piacevolezza.

 La volontà di eccellere, invece di indurlo ad un adeguato approfondimento dei temi trattati, lo fece cadere in una cura eccessiva della forma, donde quel certo ma­nierismo ed accademismo che inficiano i suoi dipinti, per tanti altri aspetti apprezza­bili. Ed anche quando un senso più realistico ed umano sembra elevare il tono delle sue opere, non manca la stonatura di una nota oleografica o decorativa.

 Affreschista tra i più capaci che la Sicilia abbia avuto, il Vasta ha qualità e difetti comuni alla maggior parte degli artisti di provincia del suo tempo: non disde­gnò !'imitazione, amò l'eleganza, fu esuberante, puntiglioso, mondano.

Tra gli allievi del Vasta quello che primeggiò fu il palermitano Vito D'Anna* (1718-1769), di cui abbiamo fatto cenno. Egli rimase alla scuola del Vasta dal '36 al '44, quando, per il ripetersi di certi contrasti con il maestro, ritornò a Palermo: da ultimo, aveva dipinto il «Ritratto del prevosto Gambino», amico del Costanzo ed avversario del Vasta (l'opera si conserva nella sacrestia della Cattedrale).

Nella sua città Vito sposò la figlia del pittore catanese Olivio Sozzi, artista che per la grande facilità nel dipingere e per il gusto del grandioso aveva destato l'atten­zione dello stesso Vasta. Si deve alle relazioni del Sozzi, se Vito per qualche tempo poté frequentare a Roma l'ambiente del vecchio Corrado Giaquinto.

L'opera del D'Anna si dispiegò soprattutto a Palermo, dove egli affrescò nume­rosi palazzi nobiliari e le Chiese di S. Sebastiano, di S. Matteo e del Salvatore. Esi­guo è il numero di sue opere che si trovano in Acireale. Oltre al ritratto del Gambino mette conto menzionare l'affresco della «Madonna dei Raccomandati» nella Chiesa omonima, la più conosciuta «Natività» nella Chiesa della Grotta, l'«Autoritratto» della Zelantea.

Vito D'Anna non ebbe un'incidenza di rilievo nell'ambiente acese, in quanto se ne distaccò ben presto: ma l'eco della sua educazione artistica alla scuola del Vasta fu in lui sempre viva, come testimoniano nelle sue opere «l'animoso aggregarsi di imponenti masse di nubi e di figure, la fluidità di movimenti e la creazione di ariose trame atmosferiche» (Bianco).

La partenza del D'Anna da Acireale consentì ad Alessandro Vasta* (Roma 1724 -

Acireale 1793) di affermarsi facilmente in un ambiente che gli fu sempre favorevole anche per il fatto di essere figlio di colui che era ritenuto la maggior gloria pittorica della città.

Alessandro illanguidì la ventata barocca che il padre aveva portato da Roma: fu pittore mediocre, di scarsa inventiva, ed amò rifarsi a certo pietistico gusto popo­lare che ce lo fa apparire come un Reni di provincia. Di limitata esperienza culturale, assecondò i gusti del momento, e ciò spiega come in Acireale non esista Chiesa che non annoveri una o più opere sue.

Di queste, per esemplificare, citiamo il «Gesù e Maria» nella Chiesa di S. Seba­stiano, un «Ecce Homo» ed il completamento degli affreschi paterni nella chiesa di S. Antonio di Padova, gli affreschi con «Virtù» della Chiesa di Loreto. le tre grandi tele della Chiesa del Carmine, quelle della Chiesa della Maddalena realizzate nel 1770, il trittico dell' «Annunciazione», un tempo ai Cappuccini ora alla Zelantea, la «Madonna della Purità» nell'Oratorio dei Filippini. la «S. Rosa da Lima» ed il «S. Giuseppe» in S. Domenico, «Sacra Famiglia» nell'Eremo di S. Anna (Acicatena).

Accanto ai numerosi ritratti, vanno ancora menzionate la decorazione pittorica della Carrozza del Senato acese e le tredici sovrapporte per i locali di rappresentanza del Palazzo di Città (1783). Sia la Carrozza che le sovrapporte sono oggi alla Zelantea.

Oltre che Vito D'Anna ed il figlio Alessandro, il Vasta ebbe come allievo di un certo prestigio Giuseppe Grasso Naso (Acireale 1726-1791), che divenne collabora­tore del maestro in qualità di quadrarurista. Dell'attività di affreschista del Grasso Naso ricorderemo la decorazione di alcune stanze del Palazzo arcivescovile di Messi­na e del palazzo del barone Ciancio in Adrano. Degli anni che egli trascorse a Paler­mo sappiamo ben poco; in Acireale sono sue tre grandi tele nella Chiesa di Gesù e Maria (firm. e dat.: «Joseph Grasso acen. pin. 1759»).

Tra i diretti discepoli del Vasta annoveriamo ancora Mariano Calì*, detto Can­zirri (Acireale 1722-1785), le cui pochissime opere pervenuteci non consentono un apprezzamento della sua arte.

Con il Calì si esaurisce la prima generazione di Vasteschi, cui seguì, senza solu­zione di continuità, una seconda generazione, costituita da figure irrilevanti di epigo­ni, i quali, fino agli inizi dell'Ottocento, ripeterono sempre più stancamente un for­mulario pittorico convenzionale. Val la pena di citare soltanto i nomi di Pietro Corin­tio (†Acireale 1800), di Giuseppe Grasso, detto Giamingo (Acireale 1759-1800), di Francesco Finocchiaro, detto Burrasca (Acireale 1740-1823), e dei fratelli Pietro Paolo Juniore (Acireale 1753-1817) e Mariano Vasta* (Acireale 1770-1830), figli di Alessandro. Pietro Paolo Jr. operò soprattutto in Acicatena, nella cui Chiesa Madre si conservano un «Transito di S. Giuseppe» ed un «S. Francesco di Paola», che sono tra le sue opere più apprezzabili.

Figura isolata, che non può essere ascritta alla scuola vastesca, è quella di Miche­le Vecchio (Acireale 1730-1799), il quale, dopo aver appreso i rudimenti dell'arte presso il Vasta (era figlio di una sorella di Pietro Paolo), si trasferì prima a Palermo, dove conobbe il D'Anna, poi a Roma. Ivi, nel 1758 e nel 1762, fu tra i vincitori dei concorsi dell'Accademia di San Luca. Di un suo soggiorno alla corte viennese di Maria Teresa non si ha sicura notizia.

La prima opera compiuta al suo ritorno in Sicilia fu la serie di affreschi della Chiesa e del Monastero di S. Teresa a Messina (1764), andati distrutti a seguito del terremoto del 1783.

Il soggiorno in patria non gli fu favorevole, essendo gli Acesi intenti alla esalta­zione dei lavori del Vasta (ormai morto) e del di lui figlio.

I colori "cretosi e brunazzi" del Vecchio (Grassi) non erano accattivanti come le piacevoli e gentili tinte dei Vasteschi. L'accusa di "cattivo colorito" dovette spin­gerlo a tentare la fortuna a Malta, da dove però ritornava ben presto nel 1771. Ai dissapori con i suoi concittadini si deve aggiungere anche l'amarezza dell'artista, al­lorché nel 1778 perdette in mare, di ritorno da Palermo, ove aveva lavorato per qualche tempo, buona pane delle sue opere, ritenute dai critici del tempo il meglio della sua produzione.

Di quelle, assai numerose, citate da Mariano Grassi, suo biografo, ricordiamo la «S. Cecilia» ed il «S. Cristoforo» nella Chiesa di S. Antonio di Padova, gli affre­schi del Convento di Belpasso, il «S. Lino» nella Chiesa del Suffragio di Acicatena. Molti dei dipinti, dei disegni e delle bozze, lasciati agli eredi, sono oggi introvabili.

Sopra i suoi disegni Ignazio Castorina Canzirri (Acireale 1737-1822), che viene considerato il maggiore intagliatore acese del '700 (allievo del cugino pittore Mariano Calì Canzirri), modellò molte delle sue statue tra cui ricordiamo l'«Annunziata» e l'«Angelo Annunziante» nella Cattedrale, l'«Arcangelo Raffaele» nell'omonima Chiesa, il «Longino» e la «Veronica» nella Chiesa del SS. Crocifisso.

A Vecchio appartengono anche i disegni delle tre statue del prospetto della Chie­sa di S. Michele, eseguite da Giuseppe Orlando.

Il meglio dell'arte di Michele Vecchio consisté nell'esattezza e nella forza del disegno e tuttavia questo pregio non gli diede la meritata rinomanza neppure presso i suoi distratti concittadini.

Nella seconda metà del '700 lavorarono nella vastesca Acireale due altri pittori: Alessandro D'Anna* (Palermo 1746 -  Napoli 1810 c.) e Matteo Desiderato (Sciacca 1752 - Catania 1827).

      Il primo, la cui attività si svolgerà soprattutto nel palermitano e nel napoletano, venne in Acireale, portando con sé come "captatio benevolentiae" alcune tele del padre Vito. Nel nostro centro affrescò la cappella di Gesù e Maria nella Chiesa di S. Sebastiano (gli affreschi sono datati e firmati: «Alexander de Anna pinxit 1771») e la cappella del Santo Amore nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo.

L'impianto scenografico, l'enfasi melodrammatica con cui vengono presentati i personaggi ed insieme una certa durezza cromatica testimoniano la provincialità di questo pittore, pure apprezzabile per certe note descrittive di gusto rocaille.

Il secondo, in nessun modo legato all'ambiente del Vasta, lascerà nella Chiesa dell'Arcangelo Raffaele 8 pregevoli tele che costituiscono il ciclo più rappresentativo della sua interessante produzione. Tra esse va menzionata la grande pala dell'altare maggiore con una «Madonna del Rosario e Santi Domenicani».

Con Emanuele Grasso* (Acireale 1789-1853) si ha, dopo quello di Michele Vec­chio, un secondo debole tentativo di svecchiamento dell' ambiente acese post-vastesco. Il nome di questo pittore «adornista», che dal padre Giuseppe Grasso Naso aveva ricevuto i primi insegnamenti pittorici, rimane legato ad un esperimento che non doveva avere alcun seguito: l'affresco su tela e su tavola. Negli anni intorno al 1830 vi fu in Acireale un gran discutere su questa nuova tecnica, che l'artista tenne gelosa­mente segreta consentendo che fosse svelata soltanto dopo la sua morte.

Del Grasso va ricordato nella volta dell'abside della chiesa di S. Maria degli Angeli l'affresco de «La Madonna e S. Francesco» (firm. e dat.: «Aemmanuel Gras­so Pin. 1816». Tra le sue opere più interessanti, a noi pervenute, sono le due vedute di Acireale che si conservano nella Pinacoteca Zelantea.

Nella prima metà del XIX secolo Acireale, scrollandosi di dosso il torpore della maniera vastesca, si apre a nuove esigenze di espressione figurativa e partecipa appie­no a quella cultura neoclassica che è stata tanta parte dell'Ottocento pittorico siciliano.

Ciò fu dovuto preminentemente all'influenza che ebbe sull'ambiente acese un nipote di Vito D'Anna, il palermitano Giuseppe Patania* (1780-1852), che, nato da famiglia di origine acese, si vantava di essere discendente di Giacinto Platania.

Il Patania ebbe contatti con l'élite culturale acese, con la quale intrattenne costanti rapporti epistolari; ma di un suo soggiorno in Acireale (facilmente ipotizzabile) non si ha notizia.

Delle numerosissime opere sparse in ogni angolo della Sicilia, ricorderemo sol­tanto quelle che si trovano a Palermo nella casa Restivo, nella Biblioteca comunale, nella Galleria municipale e nel Palazzo reale, dove il Patania lavorò in qualità di pittore di corte. La Pinacoteca Zelantea conserva alcuni suoi ritratti, genere pittorico nel quale egli fu particolarmente versato.

Durante la prima metà dell'Ottocento, l'esigenza di una cultura più aperta è testimoniata in Acireale anche dalla presenza di opere dei fratelli Francesco e Giusep­pe Vaccaro di Caltagirone, discepoli del Patania, che hanno lasciato circa sette dipin­ti nelle Chiese acesi; di Giovan Francesco Boccaccini*, musico e pittore pistoiese (1786-1864?), cui si deve la decorazione, in chiave neoclassica, del palazzo Pennisi di Floristella (la Zelantea ne custodisce tre progetti); del messinese Michele Panebian­co, ed infine dei catanesi Giuseppe Gandolfo* (1792-1855) e Giuseppe Rapisardi (1799-1853), al quale si deve la decorazione del coro e della volta della Chiesa dell'O­ratorio dei Filippini, nonché quattro quadri ovali per la Chiesa dell'Odigitria e la tela dclla « Madonna con Bambino» nella Chiesa della Madonna delle Grazie (1834).

L'influenza del Patania è visibile nelle opere di Rosario Anastasi* (Acireale 1806-Palermo 1876), interessante figura di scultore, che meriterebbe oggi una più at­tenta considerazione (Questa prima digressione e la successiva, riguardante lo scultore Michele La Spina, senza nuocere a nostro avviso al discorso pittorico, anzi inserendosi in esso, sono rivolte a dare un panorama più ampio della situazione figu­rativa acese).

Per quanto riguarda la scultura, Acireale sia nel Seicento che, in parte, anche nel Settecento era quasi costantemente ricorsa ad artisti messinesi.

L’insegnamento di Paolo Vasta, cui si debbono i disegni delle statue del vestibo­lo di S. Sebastiano (come già si è riferito) non aveva mancato di vivificare e di far proseliti anche in questo campo: ne danno testimonianza il già citato Ignazio Castorina Canzirri ed i suoi figli, è solo con l’Anastasi che appare la prima figura di scultore di un certo rilievo. L'artista, che, giovinetto, ebbe come maestro il Villareale, il più celebrato scultore neoclassico palermitano, svolse la sua attività soprattutto nella Sicilia occi­dentale. A Palermo egli visse gli ultimi quarantasei anni della sua vita.

Le opere dell'Anastasi, di cui ricordiamo i monumenti funerari in alcune chiese di Palermo e di Mazara, nonché i ritratti, di cui si ha testimonianza alla Zelantea, hanno tutte la caratteristica patina neoclassica, canoviana. In particolare, i ritratti presentano con una sottile idealizzazione del personaggio una compiaciuta perfezione formale che ne raffredda il calore.

Ritornando alla pittura, notiamo come l'insegnamento neoclassico abbia forma­to la personalità artistica di Antonino Bonaccorsi*, detto il Chiaro (Acireale 1826-1897). Il periodo che egli trascorse alla scuola di Giuseppe Gandolfo, a Catania, ebbe una influenza determinante nella sua formazione. Trasferitosi successivamente a Roma, ebbe come maestri il Carta ed il Cognetti e frequentò l'Accademia di San Luca. Dopo aver partecipato nel 1848-49 alla difesa di Roma, si trasferì nel 1853 a Firenze, dove rimase fino al ' 59, anno che segna il suo ritorno in patria. Qui, lontano dai suoi amici e maestri, Morelli, Micherti, Sciuti, risentì sempre più dell'influenza del­l'arte del Patania; la qual cosa, se da un canto gli permise di divenire il ritrattista ammirato e corteggiato della nobiltà acese del suo tempo, dall'altro impoverì la sua vena pittorica.

Il carattere più evidente della ritrattistica del Bonaccorsi consiste in una eccessiva levigatezza che egli dà ai volti pur attentamente indagati, in una certa monotona ripetizione delle pose e del fondo a tinta unita. di colore verdino. Tuttavia non man­cano le eccezioni che ci mostrano un Bonaccorsi capace di infondere una interiore vitalità ai suoi personaggi; notevoli soprattutto sono le sue capacità di disegnatore. I suoi ritratti adornano oggi i palazzi del patriziato acese, nonché le sacrestie di nu­merose Chiese: e in buon numero si conservano pure alla Zelantea.

Tra le pale d'altare vanno ricordate quella della Chiesa dei Filippi­ni e quella della Chiesa di S. Sebastiano.

Se il Bonaccorsi sembrò, all'inizio, spezzare in Acireale la vecchia tradizione accademica, successivamente, per mancanza di contatti e di dialogo con altri centri artistici, finì col ripiegare sempre più su se stesso, divenendo un attardato, ossequioso di un nuovo accademismo.

Quando, quasi sul finire del secolo, egli scompariva dalla scena della pittura acese, diversi altri artisti avevano già incominciato a far parlare di sé: Paolo Leonardi Vigo, Saru Spina, Sebastiano Politi, Francesco Mancini.

Ma, prima di intrattenerci su questa nuova generazione di pittori, è neces­sario rivolgere la nostra attenzione a Giuseppe Sciuti* (Zafferana Etnea 1834 - ­Roma 1911), maestro riconosciuto ed ammirato da tutti i suoi contemporanei, il qua­le, agli inizi del secolo, operò largamente ad Acireale,

Lo Sciuti, infatti, negli anni 1902-05 affrescava la «Battaglia di Aquilio» e le volte di sette stanze nel Palazzo Calanna, costruito da Mariano Panebianco, il mag­giore degli ingegneri acesi di fine Ottocento (1847-1915).

In tale occasione l'antico legame affettivo con Acireale (era figlio di una nobil­donna acese ed inoltre uno dei suoi primi maestri era stato l'acese Giuseppe Spina Capritti) era stato vieppiù rinsaldato con la concessione della cittadinanza onoraria nel 1902 e con i grandi festeggiamenti per il 70° compleanno nel 1904. Era questo il segno dell'ammirazione di cui godeva quale autore degli affreschi del Palazzo pro­vinciale di Sassari e della Collegiata di Catania, nonché delle innumerevoli tele di soggetto storico in voga nell'Ottocento romantico, tra cui mette conto citare «Peppa la Cannoniera», «I funerali di Timoleonte», la «Restauratio aerari», ed infine i due superbi teloni dei teatri lirici di Catania e di Palermo.

Ancora nel 1905, lo Sciuti affrescava ad Acireale la Cappella del Castello dei Baroni di Floristella (otto medaglioni) ed iniziava la decorazione della navata centrale della Cattedrale. Quest'ultima fu portata a termine nel 1907 con l'aiuto del discepolo Primo Panciroli* (Roma 1875 -Acireale 1946), cui si devono la decorazione dell'absi­de e del transetto della Chiesa del Sacro Cuore di Gesù a S. Venerina e, ad Acireale, la decorazione dei soffitti dei Palazzi Musumeci e Nicolosi e l'affresco della volta del Salone del Palazzo di Città nel 1942. (Del Panciroli, acese d'elezione, vanno altresì ricordati gli affreschi della Chiesa copta del Cairo).

Per la Cattedrale acese lo Sciuti realizzò «una grande e pesante sinfonia di bian­co su di un ricco sfondo d'oro» (P. Sciuti): finse infatti di sovrapporre ad una prece­dente visione in stile normanno-bizantino la «visione» da lui rappresentata.

Tale imponente «visione», articolata nei seguenti episodi, l'«Orchestra degli An­geli», il «Coro delle Vergini», la «Gloria degli Angeli portanti i simboli di S. Vene­ra», l'«Annunciazione», la «Fede», l'«Eterno Padre con Profeti» (di tali episodi la Zelantea custodisce i disegni preparatori) fu l'ultimo affresco eseguito dallo Sciuti. Nella grandiosa concezione qualcosa di macchinoso rimane, qualche cedimento di ritmo si avverte, ma il rigore del racconto sono evitate sia le pose eroico -monumentali sia le cadute in compiaciuti tratti descrittivi veristici - e soprattutto l'armoniosità coloristica rendono quest'opera degna di ammirazione. L'anziano maestro conclude­va ad alto livello quell'attività di affreschista che lo aveva visto primeggiare nel corso dell'Ottocento.

Tutta l'opera sua, conosciuta, seguita ed apprezzata fin dagli anni del discepolato  presso Giuseppe Gandolfo a Catania e Domenico Morelli a Napoli, ha segnato un momento di decisiva importanza nel processo di reinserimento di Acireale in un orizzonte artistico non più provinciale, benché ancora attardato.

Paolo Leonardi Vigo* (Acireale 1845-1922), dopo aver appreso i rudimenti del­l'arte, si trasferì a Firenze e a Roma dove fissò la sua residenza. Mantenne però sempre i rapporti con la città nativa e ciò spiega la presenza di sue tele (realizzate a Roma) nella Chiesa dell 'Oratorio dei Filippini di Acireale, nella Chiesa di Pozzillo ed in quella di Passo Pisciaro, per citarne alcune. Delle tre grandi pale della Chiesa dell'Immacolata di Guardia una, lo squisito ed armonico «S. Antonio Abate», è, a nostro avviso, tra le opere sue più riuscite.

«I suoi lavori sono tutti improntati ad una nota di leggiadra serenità che sfu­ma in una malinconia in tono minore, e ad una religiosità sentita e sincera che profumò di candidi motivi floreali i primi piani dei suoi quadri». Così un critico; ed è giudizio sostanzialmente accettabile. Del Leonardi ricordiamo, infine, che fu il primo Direttore onorario della Pinacoteca Zelantea.

Pur essendo il Leonardi un lavoratore coscienzioso ed instancabile, non riuscì tuttavia ad esercitare in Acireale quella incidenza che vi ebbero lo Spina ed il Mancini.

Rosario (Saru) Spina* (Acireale 1857-Catania 1943) ricevette la prima educazio­ne dal padre Giuseppe Spina Capritti* (Acireale 1818-1911), cui si debbono in Acirea­le la decorazione pittorica del teatro lirico Bellini, nonché quella degli appartamenti di rappresentanza del Palazzo di Città e della navata centrale della Chiesa di S. Maria degli Ammalati ( 1870 c.).

Saru Spina (così egli amò firmare i suoi quadri), dopo aver trascorso un breve periodo alla scuola del Bonaccorsi, studiò dal 1880 a Napoli, presso il Morelli. Era quello il periodo in cui la città partenopea, per merito della sua gloriosa scuola pitto­rica, era divenuta il punto di richiamo verso cui convergevano soprattutto gli artisti dell' Italia meridionale.

A Napoli lo Spina dimentica l'accademismo del Bonaccorsi e, sotto l'influenza dell'insegnamento morelliano, rivela la sua vena pittorica spontanea ed arguta. Ritor­nato in patria, a causa dell'incomprensione dei suoi concittadini se ne allontanò, stabilendo a Catania la sua dimora.

Ricchissima è la produzione di scene familiari, ritratti e paesaggi dello Spina. Quando con pennellata leggera e luminosa esprime la sua umanità tra sorridente ed ironica, allora ci troviamo di fronte alle sue opere più fresche. Lo Spina sa essere disincantato e commosso, dolente e trattenuto, serio ed ammiccante; vivo sempre, anche quando affronta il quadro di genere o quello romantico a tematica storica, in cui il pericolo dell'accademismo è maggiore.

Sebastiano (Neddu) Politi* (Acireale 1854 - Catania 1920) esordì esponendo nei locali del Circolo «La Trinacria» di Acireale. Successivamente studiò a Firenze, Ro­ma e Napoli; si stabilì poi a Catania, legandosi d'amicizia con lo Spina. Suoi temi prediletti furono figure, ritratti dal vero, bozzetti umoristici, e paesaggi siciliani.

Conclude cronologicamente il gruppo dei quattro artisti Francesco Mancini* (Aci­reale 1863-1948). Dopo una prima educazione in patria presso il Bonaccorsi, frequen­tò, a spese del Comune, l'Accademia di Belle Arti di Napoli; ivi si formò sotto l'in­flusso di Morelli, di Irolli e di Esposito. Ritornato in patria, si dedicò febbrilmente all'attività pittorica, senza però interrompere i contatti con gli amici napoletani e romani.

In Acireale, tra le opere di maggior impegno ricordiamo gli affreschi della cupo­la («Ascensione di Gesù») e del transetto («Sepoltura di S. Sebastiano», «La salita di Gesù al Calvario») della Chiesa di S. Sebastiano (1899-1901), i quattro riquadri per il tamburo della cupola della Cattedrale ove affrescò pure le prime quattro lunet­te degli intercolumnii della navata centrale.

Vanno ricordate altresì le seguenti pale d'altare: la «Sacra Famiglia» nella Chiesa dell'Oratorio dei Filippini, il «S. Giovanni Battista» nella omonima Chiesa di Aci­trezza e la «S. Lucia» nella Chiesa Madre di Piedimonte Etneo.

Ma dove meglio si rivela la sensibilità del Mancini è nelle piccole tele, allorché ritrae la propria famiglia, gli amici a lui cari, le marine e il paesaggio siciliano che amò come pochi altri, rendendolo con spontaneità e freschezza. Con l'andare degli anni i suoi paesaggi divennero sempre più essenziali, liberi, ma in pari tempo si vela­rono di una tristezza pacata. La vecchiaia nulla tolse alla operosità quotidiana di questo artista che rifuggì sempre da ogni forma di esibizionismo e che. lungi dalle contese, trovò nel lavoro il suo pieno appagamento.

       Figure di artisti acesi cui spetta una menzione sono inoltre: Teresa La Spina* (Acireale 1858 - 1937). Gaetano Barbagallo* (Acireale 1873 - 1937). Giuseppe Cannavò* (Acireale 1864 -1951), Giuseppina Micalizzi* (Acireale 1866 - 1951). Giuseppe D'Angelo* (Acireale 1873 - Roma 1948). scultore e pittore che operò a lungo a Catania ove primeggiò nell'arte dello stucco, Andrea Romeo* (Acireale 1885 - 1940), caricaturista spontaneo e sensibile pittore e scultore di un mondo di cari affetti familiari, Luciano Condorelli (Acireale 1887 - Roma 1968), scultore, Giuseppe Bella Vasta* (Acireale 1888 - 1970) di cui vogliamo menzionare gli affreschi del Duomo di Caccamo, Rai­mondo Bella* (Acireale 1914 - 1963), Francesco Patané (Acireale 1902 - 1980), di cui vanno ricordate le sei lunette con Santi nella navata centrale della Cattedrale e la decorazione della cappella del Seminario vescovile acese negli anni 1938 -'39.  

 

Michele La Spina* (Acireale 1849 - Roma 1943) è il secondo degli scultori acesi cui va la nostra attenzione.

Allontanatosi giovinetto dalla città natale, dopo un breve soggiorno a Parigi, dal 1881 dimorò stabilmente in Roma. Un sogno d'arte tramutò la sua vita in un vero dramma: la realizzazione nel bronzo di un colossale busto di Garibaldi , busto che egli per decenni modellò nel gesso con infinito amore. Di quel sogno oggi rimane traccia nella «prima» più piccola testa di Garibaldi, che si conserva nella Zelantea, alla quale fu donata dall'autore nel 1892 dopo l'Esposizione Nazionale di Palermo.  

Prima che l'incubo del Garibaldi tormentasse l'esistenza del La Spina. questi aveva già realizzato opere quali il «Fauno», il «Monumento del poeta Lionardo Vi­go» (1883) , il busto dell'amico pittore Giuseppe Sciuti; delle successive opere che meritino di essere menzionate, ricordiamo il busto della madre, quello dello «Scansa­galere», il «Mausoleo Geremia», il «Mausoleo Capuana» (Mineo), il «Satiro», il «Mo­numento ai Caduti» nella villetta Garibaldi di Acireale (1929), ed ancora il monumento ai Caduti» di Acicatena (1932).

Il La Spina fu avversato dal destino e dagli uomini: infatti una specie di «sortile­gio» accompagnò sempre le vicende della testa di Garibaldi; inoltre, pur essendo riconosciuto meritevole in vari concorsi, non ebbe mai il premio della vittoria, a causa di meschini intrighi e di lotte sorde, da cui si tenne sempre lontano. Infine, quando nel 1941, colpito da paralisi, fu costretto ad abbandonare lo studio, ignoti vandali distrussero tutto ciò che in esso si trovava, eccezione fatta per la «seconda» testa di Garibaldi: testimonianza del rispetto che l'opera imponeva anche ai nemici più accaniti. Purtroppo quod non fecerunt barbari ... Così di tale gigantesca testa ci rimane soltanto la testimonianza fotografica.

Michele La Spina amò anche dipingere; e di lui, oltre ad alcuni pezzi scultorei, la Zelantea conserva numerosi bozzetti e schizzi di paesaggio, realizzati con sensibilità di macchiaiolo e di impressionista insieme.

L'opera di Saru Spina, di Francesco Mancini, di Michele La Spina ha avuto agli inizi del XX secolo una grande risonanza nell'ambiente artistico acese. Con que­sti artisti ormai svincolati da ogni vuoto ossequio formale alla tradizione ed aperti alle esigenze di una cultura non più provinciale, giunge ad una svolta decisiva quel processo di inserimento dell'ambiente acese nel vivo dello sviluppo culturale non più isolano, ma italiano; processo che, iniziatosi nella prima metà dell'Ottocento, dopo molti tentativi di aggiornamento, diretti talora verso posizioni già superate, sembra ai nostri giorni del tutto realizzato.

Il nostro promemoria non ha come oggetto la storia nel momento del suo diveni­re; soltanto ci sia concesso di esprimere il nostro apprezzamento per i nuovi fermenti che vieppiù rendono partecipe Acireale di un clima artistico italiano ed europeo.

 

 

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